Da Danzica a Varsavia1. Dove inizia l’Europa
Danzica è una città polacca che ha in sé tante, differenti anime. Ricorda la Germania e l’Amburgo che fu prima dei bombardamenti, ma anche Bruxelles per le case alte e strette, tutte con facciate differenti, Amsterdam per i canali che ne attraversano alcuni quartieri, Cracovia e la Polonia Centrale per le chiese in mattoni e gli edifici barocchi. Qui sono passati cavalieri teutonici, slavi pomerani, tedeschi e polacchi: ciascuno ha lasciato il proprio segno. È qui che comincia il nostro viaggio alla ricerca degli italiani lungo la frontiera orientale dell’Europa, dalle spiagge gelate del Mar Baltico, fino al sole delle coste del Mar Nero in Bulgaria.
A Danzica la comunità italiana non è in espansione rapida come in altre città della Polonia ma conta rappresentanti importanti. Andrea Anastasi è l’allenatore della squadre di pallavolo di Danzica, uno sport che viene seguito in Polonia quasi quanto il calcio: quando, da allenatore della nazionale polacca, vinse i mondiali in Giappone nel 2011, per settimane gli fu impossibile girare per la città senza essere fermato ad ogni passo per un autografo o una foto. Massimiliano Caldi è invece il direttore principale della Filarmonica Polacca Baltica di Danzica, ospitata dentro un edificio di mattoni di fine ‘800 in stile neo-gotico che, da ex centrale elettrica, è stato riconvertito in un auditorium dall’architettura audace dove lui propone un programma di opera e musica sinfonica italiana e polacca: uno dei tanti simboli delle sovrapposizioni e degli incroci di culture che costuiscono l’anima della città.
È proprio questa idea di apertura e libertà della città Danzica che fece partire proprio lì, tra le gru dei
cantieri Lenin, le prime, grandi proteste di Solidarnosc: una rivoluzione che avrebbe scosso l’intero
blocco sovietico fino a contribuirne al crollo dopo meno di dieci anni. Furono eventi che non videro
gli italiani coinvolti direttamente, ma che ne influenzarono molti: Tessa Capponi-Borawska si trasferì
a Varsavia nei primi anni ’80 per seguire un ragazzo polacco di cui si era innamorata a Firenze, e che
di lì a poco sarebbe diventato suo marito. Apparteneva alla cellula di Solidarnosc dell’Istituto Storico
di Varsavia, ed era già stato arrestato una volta in occasione dell’introduzione della legge marziale,
nel 1982: lei decise di condividerne la battaglia politica, fino alla caduta del regime comunista nel
1989.
Si tratta di un labirinto di cambiamenti nel passato, a cui si aggiungono quelli che toccano il presente
e il futuro non solo dell’Est ma di tutta l’Europa – e di cui vecchi e nuovi italiani sono uno dei
protagonisti.
Da Varsavia a Breslavia2. Futuro Est
Gli italiani dell’Est sono, in effetti, direttamente coinvolti nel futuro dell’Europa, ed uno dei migliori esempi ne è forse Antonio Saccone. Lavora a Frontex, l’agenzia che gestisce le frontiere del’Unione Europa: un palazzo di vetro scuro nella nuova Varsavia , circondato da altre costruzioni simili dove si trovano banche, uffici di multinazionali, nuovi ristoranti alla moda. Lui lavora nel coordinamento dell’azione su quei confini che la Polonia stessa in parte rappresenta, e la cui gestione è uno degli elementi chiave nell’attuale dibattito europeo. Così, sugli schermi di Frontex a Varsavia si decide anche del rapporto tra gli Stati Membri, della posizione dell’Italia – uno dei confini dell’Europa anch’essa, e uno dei più caldi – e, in ultimis, del futuro dell’Unione. Un lavoro difficile in cui Saccone è impegnato in prima linea.
Il futuro Est è però allo stesso tempo il centro della nuova mobilità italiana diretta a Berlino, Parigi, Barcellona – ma, inaspettatamente, anche a Varsavia o Cracovia. La Polonia è, in effetti, un paese dove molti italiani cercano quello che non trovano in patria, ma che spesso non ha nulla di straordinario: stabilità lavorativa, straordinari pagati, assicurazione sanitaria, un contratto a tempo indeterminato. Lo trovano spesso dove non ce lo si aspetta: è il caso degli italiani di Katowice.
Andiamo a trovarli alla Capgemini, la compagnia di consulenza francese dove molti di loro lavorano. Il palazzo dove lavorano mostra i due volti della Polonia di oggi: fuori la vista è offuscata dai fumi delle fabbriche e delle centrali a carbone che avvelenano una città tuttora fortemente industriale. La neve fitta copre i giganteschi condomini sovietici con numeri lunghi due o tre piani disegnati sulla facciata. All’interno gli uffici sono invece un open space degno di Londra o Parigi, aree relax, mobili di design, sale riunioni moderne. Si parla polacco, italiano, francese, tedesco, inglese.
Ci lavorano italiani di alto profilo, 110 e lode stanchi di sentirsi offrire l’ennesimo stage o un lavoro sottopagato: Gianluca Lauritano, Marco Cillepi, Valeria Tunesi e tanti altri sono arrivati per questo motivo, e non se ne sono più andati. È una storia che in realtà si ripete anche altrove, a Lodz, a Cracovia, a Bielsko-Biała, dove le storiche fabbriche della Fiat ora non attirano più solo personale polacco e uno sparuto management italiano, ma anche giovani professionisti italiani, ingegneri, operai specializzati. È indice di un’industria polacca che cambia per attirare investimenti che puntino sulla ricerca e sulla formazione, piuttosto che sulla delocalizzazione sul risparmio dovuto ai costi inferiori del personale.
Non tutti credono però alla qualità della nuova manifattura polacca, e sta anche ad alcuni italiani convincerli del contrario. A Breslavia, la polacca Wrocław, Fabio Pommella arrivò da Napoli otto anni fa con un compito: convincere i distributori inglesi a comprare i prodotti della nuova fabbrica Whirpool costruita in città.
Era una missione impossibile, perché per gli inglesi la Polonia era simbolo di una produzione a basso costo che aveva tolto posti di lavoro e impianti al Regno Unito. Ne avevano fatto una questione di orgoglio nazionale: quando Pommella arrivò in Inghilterra fu accolto dal più famoso e orgoglioso dei distributori d’Inghilterra in un ufficio addobbato con bandiere britanniche e dove lo stereo suonava God Save the Queen a tutto volume. Riuscì a convincerlo almeno a fare una visita agli impianti, tentandolo con la proposta di un viaggio gratuito: dopo la visita agli impianti l’inglese fu così stupito che convinse lui stesso gli altri distributori a comprare la produzione polacca della Whirpool. Mission, accomplished.
Da Varsavia a Zablati3. L’Italia dove non te l’aspetti
Arrivato nel 2010, Pommella era al tempo ancora uno dei primi italiani a Breslavia; per la nostalgia di casa si fece costruire un frigorifero personalizzato con i colori e lo scudetto del Napoli. La nuova comunità si iniziò a costruire in quegli anni da zero, perché di italiani lì al tempo ce ne erano pochi; l’ultima volta che se ne erano visti in massa era alla fine della prima guerra mondiale, e si trattava delle migliaia di prigionieri catturati dopo Caporetto dai tedeschi – questa in effetti era Germania fino al 1945. Ne rimane traccia nelle 1016 tombe del cimitero militare italiano che custodiscono gli italiani morti di stenti, violenze o malattia nel campo di prigionia della città, una distesa di pietre del Carso che d’estate brilla sull’erba verde del cimitero, d’inverno scompare sotto una coltre di neve bianca.
La presenza storica italiana in questa parte del confine orientale dell’Europa è in effetti sfumata, disseminata quasi casualmente tra i cimiteri militari e luoghi poco o per nulla conosciuti di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca. A Praga forse il palazzo della Československý Rozhlas, la radio di stato cecoslovacca al tempi del comunismo, è l’edificio che meglio rappresenta gli italiani; lì si trovava non solo la famosa Radio Praga, ma anche Radio Oggi in Italia, emittente clandestina che trasmetteva notizie e musica nella Penisola e per gli italiani che lavoravano nelle industrie di mezza Europa. I giornalisti italiani della radio furono i primi a raccontare della rivoluzione ungherese del ’56 e dovettero scappare durante la Primavera di Praga per continuare a trasmettere in una villa in periferia di Praga che i vicini soprannominarono italska domek, la casa degli italiani. Da lì l’allora segretario generale del Partito Comunista cecoslovacco Alexander Dubček commentò, con la voce rotta dal pianto, l’invasione russa e la repressione della Primavera di Praga nel 1968.
Di quei tempi rimane poco o nulla a Praga: la italska domek ha lasciato spazio a un condominio, mentre nell’edificio della radio ceca non c’è traccia di Radio Oggi in Italia, che chiuse nel ’69 a causa dei dissapori tra URSS e PCI a seguito della condanna di quest’ultimo alla repressione sovietica della Primavera di Praga. Ne conserva il ricordo però Aldo Cicala, che a Praga ci venne per lavorare come ristoratore nell’72 e finì per conoscere bene i pochi italiani che erano lì al tempo – quasi tutti ex partigiani e collaboratori della radio, di cui divenne infine un confidente. Adesso anche la sua vita è cambiata, e gestisce una trattoria frequentata dalle star holliwoodiane; Cicala passa così facilmente dagli aneddoti sulla Praga comunista alle serate con Bruce Willis o Johnny Deep. Il suo successo è il risultato di un mix tra la sua simpatia, la fortuna di aver incrociato alcune troupe americane che per prime giravano film in Repubblica Ceca, e un fascino italiano che nel paese è più forte che mai. Non lo è solo nello stile o nel cibo, ma anche nella musica, perché in tutto l’Est cantanti come Toto Cotugno, I Ricchi e Poveri e Drupi sono idoli trasversali a tutte le generazioni.
È una storia che Davide Mattioli conosce bene, perché questo successo è anche il suo. Per farsela raccontare bisogna però andare a sud di Praga, lontano dalle masse di turisti che affollano il mercatino di Natale davanti all’Orologio Astronomico, attraversando chilometri di piccoli paesini vecchi di cinquecento anni, sepolti dalla neve spessa, addormentati nella luce bassa dell’inverno ceco. Si è scelto una casa nella parte più isolata di quella campagna, a Zablati, come oasi di pace dove riposare nelle pause di quella vita di concerti, gossip e apparizioni televisive che conduce ormai da dieci anni. Iniziò tutto per caso, perché lui in Repubblica Ceca ci era arrivato per dimenticare un matrimonio andato male e per diventare il pizzaiolo di un ristorante nel nord della Repubblica Ceca che, nonostante le premesse, non apriva mai. Registrò alcune canzoni composte da autodidatta in uno studio per passare il tempo, senza accorgersi che vicino a lui registrava anche una delle più famose cantanti ceche, Ilona Csáková, insieme ad un produttore della EMI, la casa discografica di Beatles e Pink Floyd. Rimasero stupiti dalla sua voce, affascinati dal suo stile da playboy italiano: sei mesi dopo Mattioli partiva in tour con lei e riempiva le prime pagine dei tabloid con presunti gossip sulla loro relazione. Storie che custodisce gelosamente in un librone pieno di foto, biglietti e ritagli, con tante pagine lasciate bianche per gli anni a venire.
Da Zablati a Timisoara4. Oltre il Danubio
Continuando verso sud la presenza italiana si indebolisce ancora di più, quasi a svanire. In Slovacchia gli italiani sono pochi e oltre il Danubio, in Ungheria, la crescita della piccola comunità è ancora lieve, lontana dai numeri della cosiddetta nuova mobilità diretta verso la Polonia e alcune parti della Romania. L’Ungheria vive in effetti un momento di forte crescita economica, ma molto delicato a livello politico, perché il crescente autoritarismo nel paese e il contrasto con le istituzioni europee rende difficile il rapporto con il resto d’Europa e spaventa imprenditori e professionisti italiani.
Alcuni italiani rimangono, forti del successo ottenuto in anni di attività; è il caso della famiglia Pizzoccheri, che arrivò in Ungheria nei primi Duemila dalla Pianura Padana dove avevano lavorato per generazioni come agricoltori e allevatori, e da cui erano dovuti andare via per le difficoltà economiche causate dalle quote latte. Lasciarono una terra fertile e ricca d’acqua per la campagna ungherese, dove solo la pioggia gli avrebbe permesso di coltivare. Quando, nel 2007, una siccità tremenda peggiorò la situazione già critica, fu solo la generosità e l’aiuto dei vicini ungheresi che li salvò dal fallimento, e li permise di continuare a vivere in quel pezzetto di campagna vicino Budapest che adesso, tra la collezione di trattori Fiat storici del padre e le urla in bergamasco dei figli, ricorda infine la loro campagna padana.
Per trovare la comunità italiana più grande nell’Est bisogna in realtà proseguire ancora verso sud, in direzione della Romania e di Timisoara. È un percorso che però facciamo in treno e non in macchina, perché quasi nessun autonoleggio permette di portare le macchine dall’Ungheria alla Romania – sembra quasi che stiamo per passare verso un Est differente da quello vissuto fino ad adesso.
Il lento viaggio in treno attraverso l’Ungheria offre però occasioni di riflessioni, di leggere e raccontare storie – alcune raccontate proprio da quei binari su cui stiamo per viaggiare. Fu infatti proprio dai treni che dalla stazione di Budapest partivano per i campi di concentramento polacchi che Giorgio Perlasca salvò migliaia di ebrei durante la seconda guerra mondiale. Commerciante italiano a Budapest durante la seconda guerra mondiale, si finse incaricato d’affari dell’Ambasciata Spagnola per usare l’influenza che il governo franchista aveva sul neonato partito di estrema destra ungherese, le Croci Frecciate, e garantire l’immunità diplomatica a decine di case dove Perlasca ospitò e salvò dalle persecuzioni più di cinquemila ebrei. È l’ultima storia di italiani che ci racconta l’Ungheria: passato il confine, alle prime luci del giorno appare la Romania.
Da Timisoara a Bucarest5. Romania 2019
Timisoara ha un aspetto unico e contraddittorio. L’onnipresente nebbia mattutina cela antichi edifici che paiono abbandonati, le facciate scolorite, l’intonaco a pezzi. Pare una città fantasma. Tra queste vie si muove però una nuova generazione di europei, composta da tedeschi, francesi, da tanti italiani, studenti che studiano medicina, veterinaria e odontoiatria all’università Victor Babeș. I primi ad arrivare furono gli italiani, sette anni fa, che cercavano un’università conosciuta ma il cui test d’ingresso fosse più accessibile degli equivalenti italiani.
Sara Demme, una giovane veterinaria catanese, fu una delle prime studentesse italiane di veterinaria, la prima del suo anno: arrivò in una Timisoara che vedeva i primi stranieri da decenni, frequentando corsi tenuti esclusivamente in rumeno. Pensò di lasciare dopo la prima lezione di cui aveva capito poco o nulla, ma rimase dopo aver scoperto la qualità dell’insegnamento e l’esperienza costante in laboratorio che difficilmente avrebbe potuto avere in Italia. Dopo sei anni è ancora a Timisoara e pensa a rimanere, attratta dal rinnovamento impetuoso della città raccontato dai ristoranti etnici dove tutti parlano inglese, dalle discoteche in stile berlinese, dai quartieri studenteschi abitati non più solo da rumeni, ma anche da italiani, tedeschi, inglesi.
È un cambiamento che mostra il volto della Romania che cambia, grazie anche ad un nuovo influsso di europei e italiani che arrivano adesso nel paese. Non sono infatti più i tempi dei primi imprenditori italiani arrivati nei primi anni ’90, alla caduta del regime, di questi pochi interessati al futuro del paese, molti al facile profitto offerto dalla delocalizzazione in un paese che aveva costi di manodopera al tempo solo una piccola frazione di quelli italiani.
L’ingresso nell’Unione Europea, l’adozione di nuovi standard di lavoro e produzione e la crescita dei salari hanno contribuito invece all’arrivo di una nuova generazione di imprenditori, e a premiare chi nella Romania credeva ed era venuto per restare. È il caso di Prysmian, un tempo fabbrica del gruppo Pirelli, che possiede nella città industriale di Slatina una delle fabbriche più avanzate al mondo per la produzione di cavi per l’energia e le telecomunicazioni. Lorenzo Di Federico, il direttore dell’impianto, ne è orgoglioso: gira sorridendo per la fabbrica quasi l’avesse costruita lui stesso, tra gli ambienti bianchi e pieni di luce pieni dei giganteschi rocchetti multicolore dove sono arrotolati i cavi delle fibre ottiche.
Altrettanto orgoglioso è Giacomo Billi, che a Bucarest gestisce a poco più di trent’anni il più grande portfolio di investimenti energetici nelle rinnovabili in Romania. Non è solo felice di questo successo, che ha costruito interamente da solo, ma anche del fatto di averlo raggiunto dopo aver perso tutto nel suo primo tentativo di portare investitori nel paese a causa di un brusco cambio di legislazione del settore energetico avvenuto nel 2013. La sua determinazione lo portò a tornare nel paese, dopo un deprimente ritorno in Italia, ma fu l’aiuto di alcuni anziani esperti rumeni di finanza energetica a garantirgli il successo. Conosciuti durante la sua precedente esperienza, gli diedero la fiducia che molti italiani gli avevano negato a causa della sua giovane età, spiegandogli in dettaglio le dinamiche del settore per aiutarlo a partire con la sua nuova impresa, Alive Capital. Iniziò con una scrivania prestata da un avvocato italiano nel suo studio a Bucarest e adesso ha un ufficio di cinque stanze e venti persone che lavorano per lui: la scommessa di Billi su sé stesso e sulla nuova Romania si è rivelata infine vincente.
Da Bucarest a Piatra Neamt6. Memorie della cortina di ferro
Nonostante il rapido cambiamento in corso, la Romania ancora mostra le profonde cicatrici di un regime comunista particolarmente duro. Fu un periodo di sospetto e di stasi che colpì anche l’antica comunità italiana e la sua storia. Il regime di Ceausescu era infatti sospettoso nei confronti delle minoranze, soprattutto di quelle che potevano avere collegamenti le potenze occidentali e l’attenzione cadde così sulla comunità italiana, che era nata dagli operai e gli ingegneri arrivati nell’800 per contribuire alla modernizzazione del paese iniziata dall’Impero austro-ungarico. Visse in pace per un secolo, fin quando avere abitudini e parlare una lingua differente fu considerato una minaccia all’unità nazionale: i cittadini di origine italiana nascosero così i passaporti, trasformarono i nomi, negarono qualsiasi appartenenza all’Italia.
Negli anni ’50 la memoria della comunità sparì, per essere recuperata solo dopo quarant’anni da Mircea Grosaru e sua moglie, che ripercorsero la memoria perduta perduta raccogliendo foto, documenti e storie. Le custodiscono nella Casa Italia che hanno aperto nella capitale; nei giorni che la visitiamo una gelata improvvisa l’ha catturata dentro una morsa di ghiaccio che ha colpito tutta Bucarest. I rami degli alberi del giardino sembrano sigillati nel vetro, le foglie, gli attrezzi da giardino, le statue congelate hanno l’aspetto di creazioni bizzarre di un qualche maestro vetraio. Casa Italia pare costruita in un gelido cristallo.
I segni del regime sono però ancora più evidenti altrove a Bucarest e nelle sue vicinanze. Franco Aloisio combatte ancora contro l’abbandono che consegnò una generazione di orfani rumeni alla strada, alla droga e all’HIV. Aloisio arrivò infatti nei primi anni ’90 proprio per lavorare con i ragazzi di strada che popolavano le piazze di Bucarest e i tunnel dove passava il riscaldamento della città, scappati dagli orfanotrofi-lager che la caduta del regime comunista aveva aperto, senza fornire nessuna alternativa ai ragazzi che ne fuggivano.
Trovò cinquemila tra bambini e giovani adolescenti in balia della criminalità e della dipendenza dall’eroina, in una Bucarest che sembrava un gigantesco bazaar, una terra di frontiera. Dopo quasi trent’anni la capitale è cambiata, ai mercati improvvisati si sono sostituiti i centri commerciali, ai carretti le automobili e l’insostenibile traffico delle vie del centro, ma il lavoro di Aloisio rimane lo stesso. Millecinquecento ragazzi ancora vivono per strada, molti ancora in condizioni di profondo degrado dentro ai tunnel. Quando Aloisio fa per scendere dentro ad uno dei tombini, domanda un po’ a noi, un po’ a sé stesso, se questa si possa veramente chiamare Europa.
Il lavoro di Simona Carobene la porta allo stesso modo in un luogo che sembra appartenere ad un altro continente, ad un altro tempo. Lavora a Cojasca, un paesino abitato principalmente dalla comunità rom a pochi chilometri da Bucarest; decide di portarci e in effetti l’impressione è quella di essere arrivati nei primi dell’800, accolti da carretti che sembrano appartenere alle campagne dell’Est dei primi dell’800, che trottano su un asfalto rotto dal ghiaccio tra baracche antiche di legno che non sembrano poter appartenere all’Europa degli anni Duemila.
L’interno delle case è simile, riscaldato da stufe in maiolica e da tappeti vecchi di tre o quattro generazioni, la modernità rappresentata solo dai vecchi televisori degli anni ’80, tutti righe e colori sbiaditi. Passa casa per casa, ascoltando i bisogni delle famiglie che sembrano dimenticate dalla Romania e dall’Europa. “Sono persone che hanno bisogno di vestiti, medicine, certo, ma soprattutto di una cosa: non sentirsi abbandonati”.
La caduta della cortina di ferro in Romania non colpì solo le città, ma anche le parti più incontaminate del paese. È una storia che incontriamo lasciando infine Bucarest e prendendo la via del nord, verso la Transilvania.
A Brasov lavora per il WWF Monia Martini, che affronta i problemi ambientali sorti nei primi anni ’90, quando la caduta del regime fece scomparire quel regime di autoregolamentazione per lo sfruttamento delle risorse naturali, causando una devastazione mai vista prima delle foreste pristine dei Carpazi. Il suo lavoro inizia così ricostruendo la coscienza ambientale rumena abbandonata nel nome di un rifiuto di un passato considerato retrogrado, per abbracciare uno sfruttamento intensivo che prometteva la ricchezza dell’Occidente. La sua idea è quella di promuovere invece una crescita economica sostenibile, che badi tanto alle persone, quanto all’ambiente: la cura per le ferite ancora aperte dell’ultima frontiera selvaggia d’Europa.
Andando ancora più nord ci si avvicina in realtà alla vera frontiera d’Europa, il confine rumeno con la Moldavia e l’Ucraina. Lì, a Piatra Neamț, nella zona più fredda di tutto il paese si trova Rifil, una fabbrica di tessuti italiana e la prima azienda ad aver lavorato ai tempi della Guerra Fredda in un paese della cortina di ferro, nel 1973. Luigi Bodo, il direttore e uno dei primi impiegati ad arrivare a Piatra Neamț, ci aspetta all’ingresso della fabbrica, che si trova nella zona industriale della città sepolta da una neve alta fino al ginocchio. La fabbrica è indicata da un grande cartello con un tricolore che la tormenta di neve fa in realtà appena intravedere: siamo per davvero nell’ultimo avamposto d’Italia in Romania.
Da Bucarest a Burgas7. I nuovi migranti
Il cammino che porta da Piatra Neamț fino a Sofia, in Bulgaria, è lungo – sono oltre dieci ore di macchina – ma permette di arrivare in un paese che mostra una comunità italiana nuova e unica nel suo genere. Gli italiani in Bulgaria sono in crescita – alle elezioni europee del 2019 i votanti italiani registrati dall’Ambasciata erano il doppio rispetto al 2014 – e sempre più coinvolti con il presente e il futuro della Bulgaria. Come in Ungheria e in Polonia, anche qui i migranti in arrivo in Europa sono un tema centrale, nonostante la Bulgaria (come il resto dell’Est) sia uno dei paesi che ha accolto meno migranti in tutta l’Unione Europea: nel 2017 ha dato lo status di rifugiato a sole 17 persone.
Padre Paolo Cortesi ha sofferto in prima persona dell’ostilità di parte della popolazione bulgara, quando la sua idea di accogliere una famiglia di quattro siriani a Belene, il paese dove è parroco, è stata accolta da proteste così violente da sfociare, infine, nell’incendio del portone della sua chiesa. Padre Cortesi non si è tirato indietro e lavora ancora tra la cattedrale cattolica di Sofia e Belene: “la povertà e la paura possono offuscare il sentimento di umanità”, dice, “ma non cancellarlo.”
È ancora più a Est però, sul Mar Nero, che si trova la comunità italiana in Bulgaria più particolare. Antonio Tarquinio, ex ingegnere e ora Console Onorario a Burgas, è forse un collezionista delle sue storie: lavora in un ufficio che in alcune parti sembra una piccola galleria d’arte dedicata agli italiani sulla costa del Mar Nero. Al centro sta infatti un tavolo costruito in cristallo e tubi Innocenti dipinti nei colori del tricolore, a raccontare degli operai e ingegneri che lavorarono con lui per decenni nel grande cementificio dell’Italcementi. Alle pareti si trovano i quadri dipinti dagli artisti italiani che conosce e sponsorizza, visioni multicolori dell’Italia e della Bulgaria, intrecci di tessere come mosaici romani, fili cuciti a fare dei ritratti astratti. Decide di farci conoscere una coppia di questi artisti, che più di tutti per lui raccontano della nuova mobilità del cui arrivo lui è stato testimone negli ultimi cinque anni.
Ci porta così a sud, a Varna, costeggiando il Mar Nero illuminato da un sole quasi primaverile. Dopo il ghiaccio del Mar Baltico e le tormente di neve della Romania viene voglia di proseguire e andare verso la spiaggia a rendere un tributo alla primavera che si avvicina. Tarquinio invece gira dal lato opposto, attraverso la campagna che percorre per mezz’ora, tra strade strette e fangose che impantano la sua macchina per due volte.
Alla fine arriva al rifugio di Simona Rizzi e di suo marito Tiziano Marino, una piccola casa costruita a metà, che ha solo un letto in una mansarda nascosta e un salotto pieno di quadri. Nel giardino perso in quella campagna desolata si respira l’odore del Mar Nero, più vicino di quanto credessimo. La loro è una storia semplice, in realtà: lei pittrice, lui grafico, hanno deciso di lasciare Italia e trasferirsi dove avrebbero potuto vivere e lavorare con ritmi più umani. Hanno trovato quel posto per caso d’inverno e se ne sono innamorati tornandoci in un giorno di prima estate, quando il giardino era pieno di uccelli migratori che mangiavano i frutti lasciati incolti. Sono una presenza fissa nel loro giardino: li vedono arrivare e ripartire ad ogni cambio di stagione, viaggiatori insaziabili alla ricerca di un luogo dove fermarsi, che non troveranno forse mai. Simona e Tiziano li capiscono, migranti anche loro, domandandosi se quel giardino è il loro punto di arrivo, o se arriverà anche per loro due il momento di ripartire.