East Coast Il Confine Orientale

Da Gorizia a Capodistria1. Lungo il confine

Foto storiche di soldati italiani a Cattaro, in Montenegro, tra il ’41 e il ’42. Nella foto centrale sono ritratti in abiti tradizionali locali

Il piazzale della Transalpina a Gorizia assomiglia al resto della città, con la stazione storica da un lato, le case costruite in stile anni ’30 dall’altro, in mezzo un piccolo muretto e una linea appena accennata sull’asfalto. Soltanto che quella linea non è una decorazione, ma il confine tra Italia e Slovenia. Quello dove inizia la storia degli Italiani dell’Est.

La stazione al piazzale della Transalpina non è in effetti più quella di Gorizia ma, dalla fine della seconda guerra mondiale, quella di Nova Gorica, la gemella iugoslava della città, e quel confine non è sempre stato aperto. Fino al 2004 lì c’era un muro di ferro e calcestruzzo che tagliava a metà la piazza e che durante la guerra fredda aveva rappresentato la frontiera italiana con la cortina di ferro – una versione più piccola e forse più innocua del Muro di Berlino. Il confine da lì prosegue in maniera bizzarra, correndo talvolta parallelo all’Isonzo, talvolta allontanandosi, tagliando a metà montagne, paesini, perfino un cimitero – quello di Merna, che fino al ’76 fu effettivamente diviso in due parti dalla frontiera. I toponimi da entrambi i lati hanno quasi sempre un nome italiano e uno sloveno, a cui spesso si aggiunge anche uno tedesco e uno friulano; non differenti sono le famiglie che abitano questi luoghi, che hanno un’origine italiana o slovena ma radici complesse, che raccontano spesso tutto lo spettro delle diverse comunità nell’area. La stessa Caporetto è in realtà Cjaurêt in friulano e in tedesco Karfreit, ma il nome che si usa adesso è Kaborid, in sloveno, perché Caporetto è appunto in Slovenia. La disfatta italiana nella prima guerra mondiale racconta di quanto questo confine sia stato mobile per decenni e di come sarebbe potuto apparire molto differente ai giorni d’oggi: durante la ritirata italiana le truppe austriache arrivarono quasi fino a Treviso. Se la difesa sul Piave non avesse retto forse il confine orientale avrebbe oggi un aspetto molto differente.

Il manoscritto del diario di Raoul Baccini, custodito presso l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano

L’intreccio tra gli italiani dell’Est e il confine orientale italiano diventa ancora più fitto andando a sud, verso l’Istria e la Dalmazia, ed è lì che ci dirigiamo. Sarebbe bello poter attraversare il confine a Gorizia e prendere nella sua antica stazione un treno che ci porti a Capodistria, ma ci impiegheremmo ore e dovremmo fare almeno due cambi – solo per percorrere settantacinque chilometri. Ci metteremmo quasi quattr’ore anche se dovessimo fare in treno Trieste-Capodistria (venticinque chilometri, meno di mezz’ora di macchina); quel muro tra Italia e Slovenia che l’Unione Europea e Schengen hanno fisicamente abbattuto nel 2004, in realtà esiste metaforicamente ancora per i binari che sono stati interrotti lungo quel confine settant’anni fa, senza essersi più riuniti. Il percorso obbligato per Capodistria passa quindi per l’autostrada che la collega a Trieste, rapida, diretta. Lì, l’unica traccia del confine sono i casotti abbandonati delle guardie di frontiera.

Le miniere di Arsia, l’attuale Raša, in Istria. Aperte negli anni ’30 dal regime fascista italiano, che costruì anche l’omonima cittadina per ospitare i minatori, furono poi sfruttate anche durante l’epoca titina. Sono abbandonate da oltre trent’anni

Da Capodistria a Fiume2. Le terre dell’Esodo

Percorrendo in macchina le strade dell’Istria, tanto lungo la costa quanto all’interno, la sensazione di non aver abbandonato l’Italia è forte. La traccia lasciata dall’appartenenza alla Serenissima è chiara: da Capodistria fino a Pola le cittadine costiere reinterpretano in versione istriana Venezia, Padova, Treviso, nelle piazze quadrate di pietra bianca che sembrano i campi veneziani, nelle vie strette che viene da chiamare calli, nelle chiese, nei campanili che in alcune città un tempo furono anche fari. In italiano, però, non si sente parlare molto, e non è solo per l’invasione di turisti di cui soffrono cittadine come Rovigno; è la prima, evidente traccia di quell’esodo durante il quale, dopo la seconda guerra mondiale, tra i duecento e i trecentomila italiani se ne andarono dall’Istria, spaventati dagli eccidi compiuti contro la comunità (in particolare quelli delle foibe), dalla forte ostilità del tempo verso l’Italia e dall’incertezza dovuta alla nascita del regime comunista in Iugoslavia.

Un bunker vicino alla spiaggia sotto alla Chiesa di Sant’Eufemia, nel centro di Rovigno

Dell’esodo in realtà c’è traccia ovunque in Istria, a saper guardare: le vie di Dignano hanno ancora case con le finestre sbarrate da chi sperava un giorno di poter tornare, senza mai riuscirci. Il molo Carbon di Pola, davanti all’arena della città, racconta dei piroscafi che nel 1947 lì imbarcarono gli esuli per portarli in Italia. I vecchi Bagni di Stoia, costruiti sempre a Pola nel 1936 e adesso abbandonati, mostrano il volto di una città che, da un giorno all’altro, si ritrovò improvvisamente vuota. I segni più evidenti si vedono però spingendosi oltre, all’interno, lungo il confine di quella che era la Zona A e la Zona B del TLT, il Territorio Libero di Trieste, la zona di buffer tra Italia e Iugoslavia che rimase in piedi fino all’assegnazione della Zona A all’Italia e della B alla Iugoslavia nel 1954. Lungo quella frontiera si trovano i paesi che l’esodo svuotò completamente, senza che nessuno mai li ripopolasse. Piemonte d’Istria, uno splendido borgo medievale, ha oggi una decina di abitanti e la maggior parte delle sue case sono vuote, molte crollate. Si intravedono stralci di carta da parati sulle vecchie pareti, qualche vecchio segno lasciato dai mobili. Solo la dedizione dei pochi abitanti tiene le stradine libere dalla vegetazione. Più in là, il paesino di Vergnacco non ha avuto la stessa fortuna: disabitato dagli anni ’60, è stato divorato dalla boscaglia. Senza buone gambe e una guida valida è impossibile trovarlo.

Furio Radin su una banchina di fronte al Molo Carbon, dove il piroscafo Toscana e altre navi imbarcarono i profughi dell’esodo istriano-dalmata

La comunità italiana in Istria non è però scomparsa e conta adesso trentamila persone, che oggi guardano al futuro. Per trovarla basta riprendere la macchina e scendere da Piemonte d’Istria e il nord della penisola verso Dignano, al sud. Lì dieci anni fa i giovani fratelli Kutic hanno aperto Infobip, la loro azienda informatica. Sono partiti sviluppando un sito web precursore di Facebook, che serviva a mantenere in contatto gli esuli oltreconfine con i dignanesi rimasti in patria, e che hanno poi fatto evolvere in uno dei sistemi di comunicazione via SMS tra aziende e utenti più usato al mondo: il 70% della popolazione mondiale ha ricevuto almeno un messaggio inviato tramite i loro sistemi. Forti di questo successo hanno così deciso di aprire un grande campus internazionale lì, nel mezzo dell’Istria, dove formano i loro dipendenti che vengono da tutto il mondo. I Kutic raccontano di come abbiano scelto Dignano come sede principale perché volevano che l’Istria tornasse quel grande incrocio di genti che è sempre stata. Sentendo parlare italiani, americani, cinesi, africani nel patio di pietra istriana del campus, in fondo non è difficile credere che ci stiano riuscendo.

Silvio (in primo piano) e Roberto (subito dietro) Kutic, sulla terrazza del campus Pangea di Infobip, a Dignano

Non sono gli unici a pensarla in questo modo: il giorno dopo a Fiume ci riceve Giacomo Scotti, novantadue anni di cui più di settanta passati lavorando come giornalista e scrittore in Iugoslavia. Ci accoglie ripetendoci la prima frase che sentì sbarcando nel 1946 nel porto di Fiume da un marinaio croato, che gli parlò in dialetto veneto: tocia el dito n 'tel mar e ti parli col mondo intero, metti il dito nel mare e parlerai con tutto il mondo.

Da Fiume a Dubrovnik3. L’altro Adriatico

Panorama di Fiume verso il porto

Giacomo Scotti vive in un grande condominio in stile sovietico, dove lavora ancora su di una vecchia macchina da scrivere circondato da librerie piene dei ricordi di tutta la sua vita. Ci sono copie dei duecento volumi che ha scritto, documenti ovunque, album fotografici da cui sbuca una sua foto con Che Guevara, una con Tito. Sopra ad un armadio stanno quattro faldoni, gli unici che non ha aperto da oltre quarant’anni: lì stanno i documenti che la Udba, la polizia segreta iugoslava, gli aveva sequestrato dopo averlo arrestato e torturato per una settimana. Lo sospettavano di attività anti-iugoslava in quanto italiano, lui che era arrivato a Fiume proprio per inseguire il sogno socialista e scappare dal fascismo che gli aveva ucciso buona parte della sua famiglia. Alla fine della guerra, non riuscendo a unirsi alle bande armate di Marcos in Grecia, decise di diventare parte del controesodo: quel gruppo di operai – circa duemila e soprattutto monfalconesi - che andavano in senso contrario all’esodo istriano in virtù della loro incrollabile fede comunista per contribuire alla costruzione della Iugoslavia socialista a Pola, Fiume, in Montenegro.

Giacomo Scotti nel suo studio di Fiume

La storia dell’Istria, del Quarnaro e della Dalmazia, e degli italiani che l’abitano, è in effetti raramente univoca. Per capirlo basta prendere qualche buon libro e una mappa della Croazia, da consultare mentre si percorre la splendida strada costiera che scende giù, lungo la sponda croata dell’Adriatico. È un fazzoletto di terra strappato alle scogliere bianche, incastrato tra un mare caraibico e montagne alte e selvagge, che mostra una storia che l’Italia dovrebbe conoscere bene. Poco dopo Fiume si scorge la baia di Buccari, dove i motoscafi MAS italiani riuscirono a silurare nel 1917 le navi austriache ormeggiate là, risollevando il morale tragicamente a terra dopo Caporetto – la famosa Beffa di Buccari. Settanta chilometri più a sud spuntano due isole, Rab e Goli Otok (in italiano Arbe e l’Isola Nuda), la prima verde e popolata, la seconda bianca e spoglia.

La storia di entrambe appartiene ad un capitolo buio della Croazia: Goli Otok ospitò uno dei carceri più efferati della storia della Iugoslavia titina, dove alle violenze fisiche si aggiungeva un ricondizionamento psicologico condotto dagli stessi detenuti. Messi l’uno contro l’altro dalle guardie carcerarie, finivano per punire loro stessi chi non mostrava un sincero pentimento verso i presunti crimini commessi contro il regime. Lì furono imprigionati molti istriani che non erano riusciti ad andarsene durante l’esodo e, paradossalmente, anche diversi monfalconesi del controesodo, comunisti di fede staliniana e quindi visti con sospetto dopo il distacco tra l’Unione Sovietica e la Iugoslavia. Della prigione in realtà rimane ancora molto: si può prendere una piccola barca e passare attraverso gli edifici abbandonati, tra le cataste composte da decine e decine di letti arrugginiti e macchinari dimenticati là dalla chiusura del carcere, alla fine degli anni ’80. A Rab invece non rimane quasi nulla del campo di concentramento costruito dagli italiani allo scoppio della seconda guerra mondiale. Come altri campi della regione, quello di Rab servì ad imprigionare migliaia di dissidenti e civili sloveni e croati all’inizio della prima guerra mondiale, in condizioni non dissimili a quelle degli equivalenti tedeschi in Polonia e Germania: solo tra il ’42 e il ’43 almeno millecinquecento persone morirono lì d’inedia.

I resti di vecchi giornali attaccati alle pareti delle officine di Goli Otok, dove lavoravano alcuni dei detenuti
Uno degli edifici abbandonati del carcere di Goli Otok, dove venivano tenuti i prigionieri in isolamento

Fu questo il culmine delle brutali politiche di italianizzazione da parte del governo fascista verso la comunità slovena e croata, che contribuirono a creare il forte sentimento anti-fascista, ma più spesso genericamente anti-italiano, alla base degli eccidi avvenuti tra il ’43 e il ’45 in tutta la Croazia e la Slovenia. A Zara, le rovine del grande edificio della famiglia Luxardo mostrano il segno più evidente di quegli anni di violenze. È un palazzo storico all’ingresso del porto, ancora uno dei più grandi nonostante i condomini costruiti dopo la ricostruzione della città a seguito dei bombardamenti degli anglo-americani. Abbandonato negli ultimi anni dagli ultimi proprietari, l’azienda di stato Maraska, appare oggi in maniera simile a come doveva sembrare durante la guerra: le finestre sono completamente sventrate, la facciata è in parte crollata, l’intonaco cade a pezzi. Per buona parte dell’800 e la prima metà del ‘900 la Luxardo fu una delle aziende più note di tutto l’Adriatico, ed esportava liquori dall’Impero austro-ungarico fino al Giappone. Questo fino al 1943, quando la famiglia dovette scappare per timore delle persecuzioni da parte dei partigiani iugoslavi. Nicolò e Pietro Luxardo, i due fratelli che gestivano la fabbrica, non riuscirono però a scappare in tempo, il primo ucciso con la moglie a colpi di remo da un partigiano che sosteneva volesse interrogarlo, il secondo prelevato da sconosciuti a Zara e scomparso per sempre. La fabbrica passò nelle mani del governo iugoslavo e la famiglia Luxardo, come tante altre, sparì per sempre da Zara.

La storica fabbrica dei Luxardo a Zara, abbandonata negli ultimi anni dopo la decisione dell’azienda che ne prese possesso dopo la guerra, la Maraska, di spostare i propri stabilimenti e vendere l’edificio

Scendendo sempre più a sud la presenza italiana diventa sempre meno evidente, quasi a scomparire. Il porto di Šibenik (Sebenico), l’isola di Hvar (Lesina) e pochi altri porti furono gli ultimi avamposti della Serenissima in Dalmazia, perché il suo dominio si interrompeva a Ragusa, l’odierna Dubrovnik, che divenne indipendente dalla Repubblica Veneta nel 1358, diventando così la cosiddetta quinta repubblica marinara italiana – l’unica al di fuori della Penisola. La comunità italiana lì ormai è piccola e la sua memoria si nasconde nell’Archivio Storico della città vecchia. È  un’oasi di silenzio a pochi metri dal caos dei turisti che adesso assediano Dubrovnik. Muri spessi separano gli scaffali polverosi dai negozi di souvenir, dai fast-food che sanno di pizza riscaldata e cibo fritto. Lì, nell’archivio, muri spessi racchiudono documenti unici: vengono conservati i nomi dei negozianti italiani nell’800 che lavoravano lungo lo Stradun, la storica strada di pietra bianca al centro della città vecchia, la Lista dei comunisti stilata dai fascisti durante l’occupazione della città negli anni ’40, le ultime foto scattate dai soldati prima del caos dell’8 settembre. Non è semplice entrarci, ma ci viene garantito l’accesso da Francesco Bongi, professore figlio di una storica famiglia italiana di Dubrovnik. Mentre sfogliamo i documenti dice che sia stata una fortuna che i bombardamenti non abbiano colpito l’Archivio, perché avrebbe cancellato in un colpo solo la memoria italiana di Ragusa. Ci viene da domandarci quali, visto che durante la seconda guerra mondiale Dubrovnik non fu colpita, ma Bongi parla di un altro tempo e di un altra guerra: quella iugoslava, che vide l’artiglieria navale serba sparare senza pietà sulle antiche mura di Dubrovnik. Dietro quelle mura c’era lui e tanti altri vecchi e nuovi ragusani, a piangere la morte della quinta repubblica marinara.

Militari italiani durante l’occupazione di Dubrovnik nei primi anni ’40. La foto è custodita presso l’Archivio Storico nella città vecchia

Da Dubrovnik a Bihac4. Nel caos balcanico

Una vista della città vecchia di Dubrovnik dalle colline sovrastanti

La storia di Bongi è l’inizio della nostra deviazione dalla costa verso l’interno dei Balcani, per raccontare degli italiani che si trovarono coinvolti nei tempi bui delle guerre iugoslave. Bongi visse in prima persona l’assedio di Dubrovnik del 1991-92, uscendo dai rifugi ogni giorno per trovare una parte della città in fiamme, piazze, chiese, edifici barocchi distrutti dalle bombe, fino al devastante bombardamento del sei dicembre che sventrò la città vecchia – l’ultimo tentativo disperato di prendere Dubrovnik distruggendone la memoria storica. La città però non cadde: l’accanita resistenza dei croati, la vicinanza con l’Italia, che aprì il primo corridoio umanitario durante l’assedio,  e l’indignazione della comunità internazionale per il bombardamento fece infine ritirare le truppe serbe all’inizio del ’92. Non andò così a Vukovar, dall’altro lato della Croazia, che fu presa con un assedio sanguinoso che l’antica comunità friulana, lì da oltre centocinquant’anni, patì in prima persona, e le cui tracce sono ancora evidenti in quasi tutta le strade. Anche a Sarajevo ci fu una comunità italiana che patì i tremendi quattro anni di assedio, dal ’92 al ’96, e che era nata dalle contaminazioni tra i domini italiani e quelli balcanici dell’Impero austro-ungarico e dagli italiani emigrati nei Balcani nel primo dopoguerra.

Bruno Palestra ritratto sulle rovine della cosiddetta “Fortezza Gialla” di Sarajevo

Bruno Palestra, figlio di un milanese e di una ragazza serba, è tra questi ultimo; vissuto nella sua giovinezza tra Milano e Sarajevo, negli anni ’50 si trasferì definitivamente in Iugoslavia e là rimase. Decise di non lasciare la città nei mesi precedenti all’assedio, sicuro che la guerra non sarebbe arrivata fino là, nel cuore della Iugoslavia, a centinaia di chilometri dai confini della Bosnia. Quando cadde la prima granata a Sarajevo, il cinque aprile 1992, era già troppo tardi per partire. Ci incontra alla Fortezza Gialla, uno dei bastioni più in alto di Sarajevo, per mostrarci i luoghi della vita di terrore e prigionia durante l’assedio: indica i ponti che i cecchini prendevano constantemente di mira, il teatro dove molti continuavano ad andare per mostrare la determinazione della città a vivere, a rischio della propria vita. Segue con il dito il percorso nelle vie strette ma più protette dove faceva passare i camion dei rifornimenti della ONG italiana con cui aveva preso contatto dopo il ’94, e con la quale continuò a lavorare anche dopo la fine dell’assedio.

C’erano infatti italiani sia dentro Sarajevo che al di fuori, tra le decine di volontari che cercavano di riportare l’attenzione sulle atrocità di una guerra verso cui l’Europa e l’Italia sembravano aver voltato lo sguardo. A Sarajevo arrivarono le Marce della Pace guidate proprio da attivisti e deputati italiani, mentre nel resto della Bosnia molti cooperanti italiani guidavano i camion di aiuti che cercavano di passare attraverso i corridoi umanitari spesso bloccati dalle milizie serbe o bosniache. Di questi, alcuni volontari riuscirono ad arrivare, altri furono fermati lungo la strada. Cinque furono catturati, portati in una radura in un bosco, e fucilati.

Accadde a Zavidovici, a circa centoventi chilometri da Sarajevo. Bisogna arrivarci percorrendo le vie disastrate della Bosnia, i villaggi silenziosi che ancora mostrano i segni dei kalashnikov e delle schegge di granata, eco di un conflitto da cui il paese ancora deve riprendersi. Zavidovici è un esempio di questa paralisi economica e politica che ancora affligge la Bosnia: la grande fabbrica di mobili (fondata da italiani) è in crisi dagli anni della guerra, occupata dagli operai che ne vogliono impedire la chiusura. I bar e i parchi sono pieni di ragazzi in cerca di lavoro o di un’occasione per emigrare. La situazione al tempo della guerra era ancora più drammatica: la città era isolata, costantemente sotto attacco. Mancavano cibo e medicine, che alcuni abitanti di Zavidovici trasferitisi a Brescia chiesero ai propri concittadini. Se ne fecero carico cinque cooperanti italiani, che portarono lì per due volte un camion carico di aiuti umanitari con successo. Durante il terzo viaggio, poco prima della città, furono catturati da milizie bosniache che rubarono il carico e li portarono nella boscaglia poco distante per fucilarli. Due di loro si salvarono miracolosamente, scappando nel bosco e nascondendosi per un giorno intero. L’unico ancora in vita, Agostino Zanotti, non ha smesso di tornare a Zavidovici dopo l’incidente, e ha perfino incontrato alcuni dei soldati responsabili dell’eccidio. Ha voluto dimostrare che gli italiani non avrebbero mai voltato le spalle a quello che stava succedendo nei Balcani, qualunque fosse stato il costo.

I segni ancora visibili della guerra nelle campagne intorno a Zavidovići, i cui boschi sono spesso ancora minati

In effetti, da quegli anni molti dei volontari italiani arrivati per la guerra non se ne sono più andati. Per incontrarne altri bisogna continuare verso ovest, riavvicinandosi al confine con la Croazia, lungo altri trecento chilometri e cinque o sei ore di sconnesse strade bosniache. Lì, a Bihac, lavora Silvia Maraone, che in Bosnia è arrivata per aiutare i profughi bosniaci e serbi, ed è rimasta per lavorare con i nuovi migranti. Bihac è infatti uno dei punti caldi della rotta balcanica percorsa ora dai migranti che vengono dal Medio Oriente e dal Nord Africa, come alternativa a quella Mediterranea. Silvia si è trovata così a passare dal caos della guerra, a quello delle migrazioni che nel 2015 portarono centiniaia di migliaia di persone ad attraversare il confine della Bosnia con l’Unione Europea. Lavora nei campi profughi ma si spinge anche oltre, in cima alle montagne bosniache al confine con la Croazia dove i migranti tentano il Game, il passaggio illegale della frontiera.

Decide di salire con noi per fare una piccola ricognizione; dopo pochi chilometri dal campo rifugiati incontriamo una fila di cinquanta, sessanta ragazzi che si incamminano lungo la strada che parte dai campi verdi della campagna bosniaca fino alla cime che rimangono innevate fino ai primi di marzo. Lì i migranti aspettano il momento giusto per passare, che gli viene indicato dagli smuggler che vivono nella zona, spesso anche dentro ai campi rifugiati, fingendo di essere migranti anche loro. Tra i ragazzi che incontriamo nella parte più in alto che si può raggiungere in macchina, alcuni sono al secondo o al terzo tentativo e mostrano i segni della brutalità della polizia croata, che per dare un esempio spesso spacca un braccio, un polso, o li rimanda indietro senza scarpe lungo i sentieri gelati della montagna. I ragazzi parlano a Silvia senza però mostrare paura, quasi ostentando il proprio entusiasmo nei confronti di un’Europa che desiderano raggiungere a qualsiasi costo. Verrebbe da rispondergli che in realtà la Bosnia è già Europa, ma loro intendono qualcosa di differente rispetto a dove ci troviamo: ci parlano dell’Italia e della Germania, dell’Unione Europea, di quell’Europa dove si trova lavoro e che non mostra più i segni difficili di una guerra mai finita. Quell’Europa che di fronte a loro ha costruito un muro alto quanto quelle montagne che quella sera, finito di parlare con noi e Silvia, loro tenteranno di oltrepassare.

Migranti in attesa di tentare il passaggio del confine con la Croazia, in un rifugio in cima alle montagne bosniache

Da Bihac a Tirana5. La nuova Europa

La Bosnia-Herzegovina è ancora lontana dall’entrare nel cerchio ristretto dell’Unione Europea – nel 2019 era solo un candidato potenziale, primo passo di un lungo percorso verso la vera candidatura. Bisogna tornare più a sud per incontrare i paesi già candidati, Montenegro, Albania, Serbia, Macedonia del Nord e Turchia. Tra tutti, l’Albania è però il paese che più coniuga un rapporto storico con l’Italia e gli italiani, e una nuova prospettiva europea. È quindi là che ci dirigiamo.

Panorama di Cattaro dalle mura della città

Da Bihac fino a Tirana il viaggio è lungo, due frontiere da attraversare, quasi settecento chilometri per undici o dodici ore di percorso se si è fortunati – ci si possono impiegare anche venti ore, se i controlli doganali sono congestionati. Conviene così fare una piccola sosta a metà, quando siamo tornati sulla costa adriatica, nell’ultima enclave italiana di quell’area: le Bocche di Cattaro. Ne varrebbe la pena solo per il paesaggio, perchè lì la strada stretta si stringe tra il mare che sta a pochi metri e le alte montagne che formano l’imboccatura impervia delle Bocche di Cattaro. Ogni tanto la piccola costa si amplia e lascia spazio a porticcioli antichi, piccoli gioielli veneziani per metà costruiti lungo le rive e per metà sulle montagne: Cattaro, Perasto, Teodo. Sono un piccolo cosmo d’ispirazione veneziana, dove ancora esiste una piccola comunità storica italiana che accoglie i visitatori dalla Penisola come si farebbe a Treviso: con un grappino e nessuna timidezza. È un breve barlume d’Italia che ricorda l’Istria, che però è lontana, a oltre settecento chilometri da lì.

Foto di famiglia di Giampiero Ricci che ritraggono i suoi nonni (in basso) e il padre (in alto, il militare sulla destra)

Usciti dalle Bocche tutto questo scompare: scompaiono le montagne alte e cupe, i paesini veneziani. Lasciano spazio a una costa più dolce, piatta, un tempo incontaminata ma devastata adesso dalla cementificazione incontrollata, dove di italiano c’è solo il grande elettrodotto che l’italiana Terna sta costruendo per collegare Montenegro e Italia e avvicinare un po’ di più il paese all’Unione Europea. Questo percorso lungo la costa montenegrina dura poco in realtà, in realtà, perché una sessantina di chilometri dopo Bar si inizia invece a salire lungo le montagne, attraverso una via che diventa sempre più dissestata, diventando a tratti perfino una strada bianca. Dovrebbe essere la via per la frontiera tra Albania e Montenegro, ma dopo mezz’ora a passo d’uomo la sensazione di aver sbagliato strada è grande. Bisogna invece aver fiducia nel navigatore, perché dopo circa settanta chilometri di salita da Bar si intravedono Mercedes vecchie di quarant’anni, furgoncini con il portellone chiuso con la corda; siamo arrivati alla frontiera con l’Albania.

Panoramica del lago Skadar, a nord di Scutari

Più che il futuro dell’Europa, attraversando il confine con il Montenegro l’Albania sembra in effetti il suo passato. Nei primi chilometri si vede una campagna che sembra rimasta agli anni ’50, con strade percorse più spesso da carretti e asini che da automobili. Scutari, il primo assaggio di Albania dopo la frontiera, è caotica ma affascinante, e dà un’impressione non dissimile a quella lasciata nei diari scritti dagli italiani che vi arrivarono nella metà dell’800. Erano perlopiù esuli politici a seguito dei moti di indipendenza del 1848, che trovarono nell’Albania ancora dominata dai bey ottomani un rifugio sicuro. Sono racconti affascinanti di patrioti e medici che vivono nelle corti dorate di questi piccoli signorotti locali, spesso con una fama e un successo non indifferenti. Tra tutti famoso divenne Pietro Marubi, che fondò il primo studio di fotografia dell’Albania e che divenne il più importante di tutto il paese per le tre generazioni di Marubi che lo seguirono. Principi, re e primi ministri albanesi fecero la fila per essere ritratti dallo Studio Marubi quasi settant’anni.

Il direttore del Museo Marubi di Scutari, Luçjan Bedeni, a lavoro sulle lastre del fotografo italiano Pietro Marubi, arrivato insieme ad altri esuli italiani in Albania nella metà dell’800

Questa comunità storica crebbe molto con la crescente influenza dell’Italia fascista sull’Albania, e numerose furono le coppie miste che nacquero al tempo: Ingri Bego è figlio di un’italiana e di un albanese che lavorava negli anni ’20 e ’30 nei due paesi come rappresentante della Metro Goldwying Mayer. La sua famiglia, e così tante altre, subirono però un duro colpo con la nascita del regime comunista albanese nei primi anni ’50 e la chiusura delle frontiere. Fu offerto agli italiani di lasciare il paese, ma senza poter portare con sé mogli, mariti o figli. La maggior parte rimase così in Albania, ritornando in Italia solo alla caduta del regime, quarant’anni dopo; Tra di loro c’erano Ingri ed i suoi genitori.

Ingri Bego, come Tonino Cefa anche lui figlio di un’italiana rimasta bloccata in Albania con la chiusura delle frontiere da parte del regime comunista albanese

Per cercare la nuova generazione di italiani bisogna in effetti andare più a sud, a Tirana. Lì la comunità italiana è molto cambiata rispetto agli imprenditori che affollarono l’Albania alla caduta del regime nei primi anni ’90, per sfruttare un processo di liberalizzazione che per molti avrebbe offerto facili guadagni, ma che poco avrebbe dato alla crescita di un paese la cui democrazia era ancora fragile. In una Tirana che va modernizzandosi arrivano giovani professionisti e imprenditori che lavorano per promuovere nel paese una crescita sostenibile, immune alla corruzione e allo sfruttamento insensato delle risorse naturali che ancora piagano il paese.

In realtà già negli anni ’90 alcuni italiani si impegnarono per la costruzione di una nuova Albania; tra questi Carlo Bollino, il primo giornalista italiano a trasferirsi stabilmente nel paese dopo la caduta del regime comunista. Partì affascinato dagli eventi politici dei primi anni ’90 e rimase per promuovere l’idea di un giornalismo indipendente che il paese affamato di informazione chiedeva a voce alta. Rieditò la Gazzetta Citar, un giornale italiano di primo Novecento, che divenne il secondo quotidiano del paese in poco tempo e la migliore occasione per iniziare a formare giornalisti in un paese che non aveva conosciuto una stampa libera per cinquant’anni. Il clima politico era però ancora teso, il desiderio di controllo sul paese da parte di alcuni partiti ancora forte: l’opera di Bollino fu accolta da minacce e arresti a lui e al suo staff, per culminare in un ordine di espulsione che lo tenne fuori dall’Albania per qualche anno. Questo non cambiò la determinazione di Bollino che, al riassestarsi della politica albanese, riuscì a tornare e a rimanere a Tirana, dove adesso vive e gestisce il secondo polo informativo del paese, continuando l’opera iniziata più di trent’anni fa.

Carlo Bollino, ritratto nelle strade di Tirana

Diverse donne fanno invece parte di questa nuova generazione di imprenditori. Irene Tosti ha fondato Naturalba, un’azienda agricola biologica che produce erbe medicinali e aromatiche per esportarle ovunque nel mondo. Vive e lavora in aree ancora incontaminate della campagna albanese, vicino allo splendido promontorio di Capo Rodoni. Il suo è un mestiere che odora di lavanda e origano bianco. Silvia Minotti, invece, ha fatto del riciclo di carta e metallo il centro delle proprie attività in Albania. Arrivò nel paese poco dopo la caduta del regime come consulente per la Banca Mondiale, e tornò quando aveva percepito che il paese fosse pronto per un cambio di attitudine. Tra case abusive e palazzi mai completati, il piazzale della sua azienda pieno di scarti di metallo appare come un faro sotto il sole cocente dell’Albania – e altrettanto brillanti sono le sue parole. “Quello che voglio dimostrare è che il tempo degli imprenditori arroganti, quelli che venivano soldi in mano e rolex al polso in Albania con la pretesa di comandare, è finito” ci dice nel suo piccolo ufficio. “Appartengo ad una nuova generazione che rifiuta la corruzione e crede in una crescita equa e sostenibile, perché so che un’Albania differente è possibile - e io ne voglio essere parte.” Le parole di chi ha capito che, per costruire una nuova Albania pronta per l’Europa, bisogna prima di tutto farla diventare la propria casa.

Silvia Minotti nei magazzini di Green Recycling a Kamëz, a nord di Tirana